Sono trascorsi alcuni giorni dall’entrata in vigore in Italia del dpcm 11 marzo 2020 (quello del cosiddetto lockout, causato dall’epidemia di coronavirus), ma nessuna di noi si è fermata.
Nel momento complicato che stiamo vivendo, sorge infatti una duplice esigenza: da un lato, quella di dotarci di strumenti teorici in grado di comprendere l’attuale situazione di crisi, al fine di cogliere la dimensione politica in cui risulta immersa; dall’altro, quella di reinventare un’organizzazione che ci consenta di superare la condizione di isolamento generata dalla chiusura di gran parte dei luoghi nei quali si svolge normalmente il contatto umano (fabbriche e luoghi di detenzione a parte, è superfluo sottolinearlo) e contrastare gli effetti della quarantena a cui effettivamente e volontariamente ci sottoponiamo.
Tante di noi hanno perciò continuato a studiare, a discutere e ad organizzarsi, seppur attraverso i limitati e contraddittori strumenti telematici di cui disponiamo.
Per fare ciò, siamo partite dai nostri bisogni e dalle conseguenze economiche e sociali – causate dalle misure adottate su iniziativa delle istituzioni nazionali e sovranazionali, nella gestione di questa emergenza – che hanno colpito noi stesse e le persone a noi più vicine.
In una situazione liquida e mutevole come quella vissuta oggi in Italia, occorre prestare particolare attenzione nell’unirsi al coro di sentenze casuali che affollano web e televisioni. Crediamo però che alcuni elementi, sotto gli occhi di ogni osservatore, dovrebbero essere condivisi come punti di partenza imprescindibili per l’elaborazione delle nostre riflessioni e delle nostre pratiche; e cioè:
– che l’epidemia esiste davvero e che le istituzioni pubbliche hanno poco o per nulla tutelato proprio le persone per cui questo virus rappresenta un rischio reale;
– che delegare in toto la propria esistenza a qualche salvifica autorità superiore (lo Stato o le forze di polizia) è un concetto folle in contingenze ordinarie, figuriamoci nel corso di vere e proprie emergenze;
– che i costi sociali ed economici di ogni crisi interna al capitalismo sono sempre scaricati sulle fasce più deboli. Qui, i soggetti maggiormente esposti: chi corre più rischi di contagio (anziani e immunodepressi, isolati a casa da settimane senza l’adozione di adeguate misure pubbliche di supporto); i detenuti e le lavoratrici dei settori più “sfigati” e – spesso, guarda caso – più sfruttati;
– che il controllo sociale esercitato in questi giorni – a volte in accordo, a volte in aperta contraddizione con la necessità di contenere il virus e con le stesse previsioni legislative – non arretrerà da solo (e il senso di onnipotenza che ammanta i funzionari di polizia, non si dissolverà al termine della crisi);
– che i media mainstream restano una merda, con la schizofrenia che ha caratterizzato la diffusione delle “notizie” in queste settimane (sintetizzabile nell’ondivaga assunzione delle parole d’ordine panico-non succede nulla-panico, ad libitum) e con l’ossessiva attenzione da questi riposta al “bollettino dei morti e dei contagiati” (macabra evoluzione del “bollettino dello spread” e di altre simili amenità, a cui ci hanno abituate in questi anni);
– che le raffinate e repentine analisi politiche hanno vita breve, in un momento simile, e rischiano ogni ora di essere smentite dalla realtà dei fatti.
Negli ultimi giorni abbiamo sofferto per gli ennesimi morti ammazzati nelle galere italiane, abbiamo sofferto per l’obbligo di lavorare imposto ad alcune lavoratrici e lavoratori, in aperta antitesi con lo sbandierato principio di tutela della salute.
Per questo, solidarizziamo con i focolai di lotta e resistenza che stanno infiammando il paese (rivolte nelle carceri e scioperi nelle fabbriche, soprattutto).
Al tempo stesso, abbiamo però anche gioito della solidarietà reale, dal basso, autorganizzata, che sta fiorendo un po’ ovunque, a testimoniare che l’emergenza attuale sta producendo anche frutti preziosi.
Oltre ad essa, desideriamo che nuove forme di supporto e di collettivizzazione si impongano: nella condivisione delle difficoltà e delle paure, nel sostegno concreto offerto ai “soggetti a rischio” di cui sopra, per darsi una mano ad affrontare le esigenze immediate della nostra quotidianità.
Anche a partire da una condizione come quella attuale, possiamo lavorare nella direzione di costruire nuove relazioni sociali, alternative a quelle imposte sui nostri corpi da troppo tempo.
Lo stato d’eccezione oggi vissuto in Italia non fa altro che mettere in luce le mancanze dei nostri rapporti.
Mette in luce la mancanza di tutela e, anzi, la colpevolizzazione dei “soggetti a rischio”, oltre che la mancanza di forme di comunità efficaci ad affrontare le difficoltà. Contemporaneamente, offre però l’opportunità (anche costretta) per creare nuove forme di rapporti e condivisione.
Il rischio sanitario è reale, ma continueremo a praticare l’autogestione e a connetterci con altre esperienze simili, che spontaneamente stanno già nascendo!
Su questa pagina, tenteremo di offrire delle valutazioni sulla situazione, con la maggior prudenza e accortezza possibile, tentando di sottrarci alla schizofrenica cacofonia dei media mainstream, ma viceversa cercando di partecipare a un processo collettivo utile a chiarire le dinamiche di potere che si nascondono dietro alla crisi attuale.
Per fare ciò, cominciamo condividendo qui sotto il link a un pad prodotto in questi giorni: una pagina online accessibile e modificabile da tutte, in cui abbiamo riportato alcuni dei testi che ci hanno ispirato nelle riflessioni e nelle discussioni dell’ultimo periodo.
Aspettiamo il contributo di ogni persona che abbia tempo e voglia di partecipare a questo processo, mentre cominciamo a mettere in campo pratiche di autorganizzazione adeguate a rispondere ai nostri bisogni, nell’Italia del coronavirus.