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21 domande sulla pandemia di covid e la sanità territoriale a Trieste – Seconda parte di un’inchiesta collettiva

Pubblichiamo la seconda parte di un’inchiesta collettiva sui temi della salute e della sanità a due anni ormai dall’irruzione sulla scena mondiale della pandemia di covid-19 (qui puoi leggere la prima). Anche questa volta vogliamo offrire un punto di vista autonomo, di parte, che consideriamo sempre più necessario di fronte a quanto sta accadendo: nell’astrusa gestione governativa, nelle pressioni dei grandi concentrati di potere e di capitale, nella sarabanda mediatica, persino nella grandi proteste di piazza, la salute ai tempi della pandemia è stata infatti la grande vittima, nonostante la retorica martellante che la voleva al centro di questi due anni dannati.

Il secondo contributo che pubblichiamo per questa inchiesta è unintervista ad una sanitaria, specializzata in medicina generale, che attualmente lavora in guardia medica e USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziali) di Trieste e Provincia. Durante la sua formazione si è occupata anche di microaree e salute territoriale.
Buona lettura!

1.Cosa sono le USCA e come sono nate nel nostro territorio?
A Trieste le USCA [Unità Speciali di Continuità Assistenziale, ndr] sono nate fondamentalmente su un’autorganizzazione. A differenza di altri luoghi in Regione e in Italia che hanno aspettato la formalizzazione dopo l’istituzione del decreto, a Trieste sono state attivate quasi immediatamente le guardie mediche per mettersi a disposizione nel neonato servizio USCA. La decisione del governo era un punto di partenza, però le modalità di attuazione erano da decidere su base territoriale, così ci sono state declinazioni diverse a seconda dell’azienda sanitaria in questione.

Sul momento è stato un fatto positivo: la pandemia era già una cosa reale, ma il carrozzone burocratico era ovviamente in ritardo. A Trieste, dove in un primo momento si era reagito abbastanza velocemente, la realtà purtroppo è rimasta sempre quella. Non è mai stato fatto un bando di assunzione per le guardie mediche coinvolte nell’USCA. Sono state prese in maniera abbastanza informale delle persone che avevano già il titolo di medico di famiglia o che stavano frequentando il corso di formazione specifica in medicina generale. Quest’ultimi sono stati esentati dai tirocini per poter essere inseriti nel servizio.

2. Come hanno funzionato le USCA durante i primi mesi della crisi?
A Trieste e provincia non c’è mai stata una vera e propria organizzazione. Il servizio è rimasto a chiamata del cittadino.

Per come è strutturato, non c’è la possibilità di una presa in carico del paziente, che non viene dunque richiamato o ricontrallato nel tempo, a meno che non sia lui stesso a rimettersi in contatto con l’USCA o che il singolo medico prenda iniziativa individualmente. Di fatto io e altri colleghi abbiamo seguito diversi casi, ma questo è avvenuto esclusivamente su spinta volontaria, mai in un modo sistematico.

In altre aziende sanitarie, invece, l’USCA ha svolto visite programmate su indicazione del Dipartimento di Prevenzione o del Medico di Famiglia.

Dunque i cittadini hanno avuto come riferimento un numero verde a cui rispondeva un infermiere che, svolto un triage telefonico per eventuali urgenze di competenza diretta del 112, rimandava le chiamate a noi o al loro medico di base. Da una parte, i medici di famiglia a Trieste, al di là di qualche gruppo particolare, non hanno un funzionamento esemplare (e negli ultimi decenni non vi è stata alcuna riorganizzazione della medicina generale locale). Dall’altra, si sono trovati totalmente sovvracarichi. Nelle prime settimane non c’erano nemmeno DPI [Dispositivi di Protezione Individuale, tra cui mascherine e guanti, ndr] per tutti. Tutto questo ha fatto sì che la valutazione clinica territoriale delle persone fosse interamente affidata alle USCA.

Dopo un po’ la cosa si è assestata. Alcuni  medici di famiglia  hanno iniziato a visitare i loro pazienti e a rivolgersi a noi solo in caso di situazione cliniche indifferibili. Altri medici invece hanno continuato a lasciare alle USCA il lavoro di visita.

Questo, insieme al malfunzionamento del Dipartimento di Prevenzione, ha fatto ricadere sull’USCA una notevole mole di lavoro. Non solo le questioni correlate alla clinica, ma anche quelle più burocratiche: interrogativi sui contatti sospetti, informazioni sui certificati di quarantena, ecc. Tutte questioni teoricamente affidate al Dipartimento di Prevenzione, su cui però in quasi due anni di pandemia non sono mai riusciti a dare risposte puntuali e veloci.

3. Come svolgete il vostro lavoro attualmente? È migliorata la qualità del vostro servizio col passare delle ondate?
Come USCA siamo ancora attivi. Noi richiamiamo la persona malata [dopo che essa ha contattato l’USCA attraverso il numero verde, ndr], valutiamo le condizioni cliniche al telefono e se c’è bisogno andiamo a visitarli. Come strumenti diagnostici abbiamo a disposizione un saturimetro, un fonendoscopio e per un periodo abbiamo avuto anche un ecografo, ma lo abbiamo utilizzato molto poco perchè la formazione in medicina generale – almeno in questa regione – non prevede una formazione adeguata su tale metodica diagnostica.

Per altri interventi (esami del sangue, medicazioni, reidratazione endovenosa, ecc) è sempre stato attivo il servizio infermieristico del distretto.

Per eseguire accertamenti o valutazioni specialistiche – anche non strettamente legate al covid , se la persona è positiva, deve accedere al Pronto Soccorso.

Nel tempo il nostro servizio è rimasto invariato e, credo che la qualità, aldilà degli strumenti a nostra disposizione, sia dipesa molto dalle richieste: nei momenti critici abbiamo dovuto iperselezionare le visite domiciliari, rimandando direttamente al Pronto Soccorso i casi che apparivano già gravi al telefono e tralasciando casi in cui non vi erano reali necessità cliniche (ma in cui un visita sarebbe potuta essere rassicurante per la persona o il suo entourage).

La situazione è comunque sempre molto fluttuante. Ora, almeno dal punto di vista clinico, la situazione è meno grave, il saturimetro è ormai uno strumento diffusissimo e la diagnosi di positività è precoce. All’inizio della crisi capitava di avere persone con febbre da 10 giorni che non avevano eseguito un tampone. Tante persone ci contattavano tramite il numero verde e ci dicevano che avevano sintomi, ma noi come USCA non potevamo programmare un tampone, soltanto fare una segnalazione – tramite mail – al Dipartimento di Prevenzione che, con grande lentezza, tamponava il paziente e solo una volta accertata la positività faceva partire il contact tracing. Perciò noi consigliavamo alle persone che avevano avuto dei contatti stretti di stare a casa nel frattempo, chiedendogli di invertarsi un modo per farlo, considerando il grosso problema del dover giustificare una assenza lavorativa (senza essere malati e senza essere stati “riconosciuti” ufficialmente come contatti stretti).

4. Cosa rappresenta il COVID-19 per un medico che lavora nel territorio?
A livello clinico, la malattia è grave. Noi, come guardie mediche, siamo abituati a gestire i picchi di influenza, ma il covid non è paragonabile. La principale differenza è che il covid colpisce gravemente anche soggetti abbastanza giovani, in termini relativi, come quelli appartanenenti alla fascia 45-55. La gravità in questi casi dipende spesso del quadro pregresso (obesità, diabete, altre patologie) e perciò, secondo me, oggi, dopo due anni di pandemia, le riflessioni dovrebbero essere incentrate di più su questi aspetti, ovvero sulla società e gli stili di vita dominanti.

Si tratta di una malattia che è cambiata nel tempo, così come la nostra percezione di essa. È una patologia abbastanza “stronzetta”, perché dà, nella maggior parte dei casi, un quadro respiratorio del quale non è facile accorgersi in un primo momento. Secondo me, se non sei una persona sportiva o abituata a sentire la tua respirazione, non è facile rendersi conto precocemente che c’è un problema. E così, i casi più brutti che abbiamo assistito a casa erano quelli di persone che ti dicevano di star bene mentre respiravano già con le branchie.

Nell’estremo opposto ho incontrato delle persone, gente giovane e sana che, nonostante cercassimo di tranquillizzarli spiegandoli che il loro caso non era grave, entravano in un loop di piena paranoia. Questo succedeva anche a chi disponeva di risorse (culturali, sociali, famigliari, ecc) per resistere all’isolamento. Tante persone senza particolari problemi clinici ci richiamavano ogni giorno. Ci contattavano perché erano soli a casa o perché si sentivano in colpa di aver contagiato familiari anziani. E tu non avevi nessuno strumento per aiutarli. Nei momenti peggiori, in cui visitavo gente anche fuori dall’orario di lavoro, ho fatto molte visite di cortesia, anche solo per placare l’ansia delle persone. Molti finivano per andare in pronto soccorso senza motivo clinico e, senza accesso in ospedale, non c’era neppure la possibilità di farli prendere in carico dai servizi psichiatrici.

Quindi secondo me il covid è una malattia doppia: da una parte, la malattia subdola che ti prende e che può mettere in seria difficoltà il tuo sistema respiratorio e, dall’altra, la paranoia di malattia, anche se non è grave. Purtroppo, tranne in rari momenti, non c’è mai stata una rete di psicologi di supporto, al massimo, in alcuni momenti, ci sono stati dei gruppi di psicologi volontari, ma poca roba.

5. Come è stata gestita la crisi nelle case di riposo e qual è stato il vostro ruolo in quelle situazioni?
In un primo momento è stato un grande delirio: come USCA andavamo nelle case di riposo su chiamata per un singolo caso e, ovviamente, ci trovavamo a valutare numerosi casi. Dopo un po’ abbiamo deciso di mettere un nostro collega ad hoc per quel servizio, ma in ogni caso tutto è stato sempre abbastanza informale.

Ci sono stati tanti morti nelle case di riposo. Per me questo è dovuto alla gravità della patologia di per sé e alle condizioni di salute, già precacarie prima dell’infenzione di covid. A Trieste non attribuirei queste morti alla strategia di non ricoverarli in ospedale [effettivamente praticata altrove, ndr]. Nella mia pratica, la scelta di non ricoverare è sempre stata legata ad una valutazione della volontà della persona e della sua rete famigliare (quando presente). Altri fattori importanti per prendere questa decisione erano la tipologia di struttura in cui si trovava la persona e le cure aggiuntive di cui avrebbe potuto beneficiare in caso di ricovero. Nella realtà è successo di tutto: persone che io non avrei ricoverato lo sono state e viceversa.

6. Invece qual è stato il vostro rapporto con le persone anziane che abitavano in casa propria?
Trieste è una città con molti anziani. E la solitudine di molte di queste persone è una realtà. Aldilà dei casi respiratori gravi, in questa fascia di popolazione molte problematiche sono state legate all‘assistenza. Non avevano una vera e propria rete familiare – o questa si era sgretolata – e la perdita di autonomia legata al covid gli aveva creato problemi di disidratazione o di alimentazione. C’era la possibilità di attivare un infermiere di distretto, ma sono pochi, e quindi spesso abbiamo preferito ricoverarli. Sul territorio sono state attivate strutture intermedie a bassa intensità di cura per la presa in carico di queste persone, ma spesso la valutazione di questi casi è avvenuta “in urgenza” da parte delle USCA, e ha implicato il ricovero in ospedale e il successivo trasferimento in struttura ad hoc.

7. Cosa ci puoi dire sul ruolo del Dipartimento di Prevenzione nella crisi?
Come USCA, dal Dipartimento non abbiamo avuto molte notizie, né linee guida, né grande cooperazione. Sono da sempre in difficoltà e, dopo che gli sono state affidate le decisioni centrali riguardo la pandemia, non sono stati rafforzati in modo adeguato e strutturale: hanno assunto sempre con contratti brevi tutto quel mondo sanitario “nel limbo”. Per questo, e per l’elevatissimo numero di chiamate che ricevono, sono stati sempre inefficaci; il contact tracing ha sempre funzionato malissimo. A novembre, poi, quando molti sanitari sono rientrati nelle scuole di specializzazione, il Dipartimento è veramente crollato.

8. Come è stata adattata la sanità triestina, da un punto di vista generale, alla pandemia?
Non è stata effettuata una vera e propria riorganizzazione dei servizi, né durante la prima ondata né più avanti. In due anni non sono riusciti a pensare ad un’organizzazione efficace. Sono stati creati gruppi di coordinamento tra i vertici sanitari, ma con un’organizzazione del territorio imbarazzante.

Hanno semplicemente potenziato qua e là alcuni servizi già esistenti, senza creare una vera cooperazione tra le varie figure coinvolte. E anzi, alcuni servizi esistenti che in una situazione del genere potevano essere essenziali, come le microaree, sono state chiusi all’inizio della pandemia. Per quello che riguarda i medici di base,per quanto ne so io, non si è nemmeno pensato di coinvolgerli in una riorganizzazione.

È difficle da spiegare, perché non ne ho sicuramente la visione d’insieme e per farmi capire dovrei fare mille esempi. Il mio vissuto, e credo quello di molti altri colleghi, è che molti malfunzionamenti e e “disservizi” hanno implicato un sovraccarico di lavoro per tutti e sarebbero stati risolvibili con una maggior cordinazione tra i vari attori coinvolti.

9. Cosa ti sembra che potrebbe rendere migliore la sanità territoriale triestina, dal punto di vista della presa in carico e cura del paziente?
In una città come Trieste, secondo me, sarebbe stato sufficiente continuare nella direzione già avviata, ovvero la territorializzazione dei servizi.

La forza dei distretti a Trieste era una realtà. Io, venendo da un’altra città, conoscevo i distretti come pure entità amministrative, non erano punti di riferimento per la salute delle persone. A Trieste invece già da tempo l’azienda territoriale era scissa dall’azienda ospedaliera e ciò aveva generato una buona rete di assistenza primaria. Purtroppo, con le riforme degli ultimi anni, ci sono state notevoli marce indietro e, come del resto in tutta l’Italia, si è favorito il privato investendo sempre meno sulla struttura pubblica.

Come USCA avremmo lavorato molto meglio se avessimo avuto una popolazione di riferimento precisa, invece che ricevere persone da un numero unico [il numero verde, ndr], che si è preso in carico tutta la popolazione.

10. Invece qual è stato il ruolo delle microaree durante la pandemia?
Le microaree erano un bellissimo progetto sociosaniatario orientato alla salute della popolazione, apparentemente visionario per i tempi in cui furono pensate [nel 2005, su spinta dell’Azienda Sanitaria Territoriale di Trieste, il Comune e l’ATER, ndr]. Per la prima volta si mettevano degli operatori, uno per ogni microarea, in 10 zone svantaggiate, allo scopo di valutare cosa fare in termini di salute. La grande novità consisteva nel fatto che non si istituiva un servizio di cui il cittadino poteva usufruire, ma si andava a conoscere un territorio per comprendere quali fossero gli ostacoli che impedivano a quelle persone di fare gli stessi percorsi di salute di persone che vivono in altri quartieri.

Per quanto posso averci capito io, il progetto è stato inizialmente possibile perché al tempo c’era Rotelli a capo della sanità, e poi è rimasto in piedi perché non dava fastidio nel budget complessivo.

Da un po’ di tempo non frequento le micrearee e non mi confronto con le persone che ci lavorano, ma l’impressione è che negli anni siano state svalorizzate, perdendo il potenziale trasformativo che rappresentavano. La mia impressione è che il servizio sia stato ridotto a quello che potrebbe essere il ruolo di un infermiere di comunità. Rimane comunque un servizio utile, ma rappresenta un passo indietro rispetto al progetto iniziale, che era prima di tutto di carattere sociale e guardava al quartiere di riferimento nel complesso.

In tempi di pandemia le microaree avrebbero potuto intervenire a partire da una conoscenza reale delle fragilità, cliniche e sociali, del territorio. Ad esempio, quando lo Stato ha detto alla popolazione “state a casa”, generando ulteriori disagi in tante persone, la microarea sarebbe dovuta essere sia un punto cruciale d’informazione per capire come affrontare l’emergenza in quei quartieri – fragili e come tale a maggior rischio – sia una risorsa  per dare un supporto reale a quella parte di popolazione. Invece sono rimaste del tutto marginali, anche perché le microaree hanno utilizzato spesso della forza lavoro precaria, tipo persone che facevano il servizio civile o anziani del quartiere, e questi hanno ovviamente interrotto il loro contributo con l’inizio dell’emergenza.

Il problema è strutturale: il servizio sanitario da anni è sottofinanziato e la logica prevalente è quella aziendale.

11. Come pensi dovrebbe funzionare la medicina territoriale in Italia, per essere veramente efficace?
In italiano ci sono molti termini (medicina di comunità, cure primarie, assistenza primaria, ecc) che possono indicare modelli simili ma anche molto diversi, a seconda del contesto in cui sono applicati.

Per me, quando si parla di medicina territoriale, si dovrebbe far riferimento a quello che in inglese viene definito Primary Health Care, un paradigma formulato e descritto per la prima volta nel 1978 e basato sul concetto dei determinanti, sanitari e non, di salute. È un modello a cipolla, dove dai fattori genetici passi al lavoro, alla casa, all’economia, alla famiglia, all’ambiente. Un approccio globale alla salute del singolo e della collettività, esito della collaborazione attiva tra vari settori della società e della partecipazione di tutta la comunità.

In pratica, i professionisti della salute possono anche dirti di camminare un’ora al giorno, di mangiare bene e di non stressarti, ma se poi non riesci a farlo per le tue condizioni sociali o economiche, vengono fuori tutta una serie di malattie croniche. E il covid l’ha subìto prima di tutto quella parte di popolazione più esposta.

Per attuare un modello di Primary Health Care non è sufficiente riformare la medicina di famiglia o istituire l’infermiere di comunità. Bisogna sviluppare un sistema che sia interessato a “fare salute” e non solo sanità. Poi la declinazione pragmatica dipende dal territorio specifico in cui interviene, un conto è stare in Veneto e un altro stare a Trieste. La pratica dipende dal territorio e dalla popolazione che ti prendi in carico.

12. Si è parlato molto del ruolo dei medici di famiglia durante la pandemia, qual è la tua visione a riguardo?
Innazitutto, credo che l‘assistenza primaria debba essere pubblica, perciò considero un problema il fatto che in Italia il medico di famiglia sia un privato convenzionato. Questo inquadramento professionale ha determinato lo sviluppo di una figura di medico solista che, nonostante alcune riforme, ancora oggi è tale, soprattutto a Trieste.

Potremmo parlare per delle ore di quali sono attualemente le criticità (e ci sono infiniti studi e professionisti che si occupano di questo argomento), ma mi limiterò ad un esempio: la scelta del medico di famiglia in un Comune è lasciata al singolo cittadino – libertà sempre più risicata vista la carenza di medici. Può un servizio sanitario sviluppare una rete territoriale efficace se il distretto sanitario, a cui fa riferimento una parte della popolazione, ha potenzialmente come interlocutore tutti i medici di famiglia del comune di Trieste?

Per me, in gran parte di questo Paese, abbiamo un modello ottocentesco in cui limiti, già chiari prima, sono diventati evidenti con la pandemia.

Esistono modelli differenti, ad esempio quello portoghese, dove hai una casa della salute di riferimento a seconda di dove abiti; non un medico di riferimento, ma proprio una “casa”, dove entri, esprimi un problema e viene individuato il percorso più adatto per la tua situazione.

13. Qual è stato il tuo approccio terapeutico a domicilio inizialmente e com’è adesso dopo due anni di visite domiciliari?
Sotto il profilo delle terapie, in una prima fase, quando le linee guide erano assenti, andavamo a tentativi. Suona brutto ma è così. Per fare un esempio, inizialmente si pensava che l’azitromicina – un antibiotico – potesse aiutare, ma poi nessuno studio ne ha provato l’efficacia.

Nel primo periodo, nei casi di persone che sviluppavano la polmonite interstiziale ma che non richiedevano il ricovero, abbiamo prescritto prevalentemente cortisone e  antibiotico. Nei casi in cui era necesario, anche l’ossigenoterapia.

Ad oggi la situazione è un po’ cambiata: i protocolli indicano l’introduzione del cortisone solo in soggetti ospedalizzati che necessitano ossigeno. Per quanto riguarda quest’ultimo, con l’emergenza era stata creata la possibilità di attivazione dell’ossigeno liquido (tramite accordo – immagino nazionale – con la ditta Vivisol). Si trattava di una novità, perché tale attivazione è sempre stata riservata allo specialista pneumologo. Dallo scorso luglio, senza attivazione ospedaliera, non è più possibile fornire ossigino liquido. Quindi se vuoi stare a casa e hai bisogno di ossigeno, o c’è una persona della tua rete che ti va a prendere regolarmente le bombole di ossigeno in farmacia oppure è impossibile farlo (le bombole di ossigeno gassoso hanno una durata limitata, indicativamente 24 ore).

In più, circa da aprile 2021, c’è un protocollo per la terapia con gli anticorpi monoclonali praticata in day hospital nel reparto delle malattie infettive, a cui sono candidabili certi target di popolazione.

L’azienda sanitaria non ci ha mai indirizzato verso l’utilizzo di nessuna terapia, rimandandoci indirettamente a seguire le linee guida dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Ad un certo punto, l’azienda sanitaria ha creato un protocollo per somministrare l’idrossiclorochina [farmaco antimalarico usato anche contro altre patologie, ndr], ma, a domicilio, non è mai stato applicato. Non c’erano evidenze scientifiche e la gestione sul territorio ci è sembrata impraticabile (esecuzione di esami ed elettrocardiogramma prima della somministrazione, evidente necessità di monitoraggio nel tempo delle persone, ecc). Nei reparti ospedalieri delle malattie infettive, invece, l’idrossiclorochina è stata utilizzata (oggi non più).

Nella pratica, non c’è mai stata una riunione per coordinarci fra i diversi servizi (infettivologi, USCA, medici di famiglia, pronto soccorso), per concordare assieme un protocollo di assistenza e cura. Da parte nostra, i 15-20 medici che facciamo parte dell’USCA ci siamo sempre confrontati informalmente rispetto alle evidenze prodotte e la nostra pratica, in particolare su necessità di ospedalizzare, uso di antibiotici e  cortisone.

Io oggi continuerei a somministrare cortisone a domicilio in certi casi selezionati (che per brevità e specificità di esposizione non descrivo) ma, per quanto ne so, non sono stati organizzati studi a tal proposito. La mia è un’affermazione non fondata ma, nella pratica, abbiamo avuto diversi casi di persone che, dopo la somministrazione del cortisone, sono migliorate e sono rimaste a casa. Il problema è che rimane il dubbio se sia stato l’effetto del cortisone o il naturale decorso della malattia in quelle persone.

14. E cosa ne pensi delle cosiddette “terapie domiciliari precoci”?
Non so bene cosa dire di questi gruppi che hanno applicato terapie domiciliari precoci. Se da una parte mi risuonano le parole, senza troppi ragionamenti, di tanti miei colleghi che si scagliano contro i novax e contro queste cure alternative, dall’altra parte ho molte perplessità, sia cliniche che gestionali. Sono impressioni su aspetti colti durante il mio lavoro, non ho un quadro completo sulla rete delle cosidette “cure domiciliari precoci” che ha operato a Trieste.

I dubbi clinici riguardano prevalentemente la somministrazione di antibiotici e cortisone dal primo giorno di malattia. L’infezione è virale e quindi non vedo il razionale di somministrare indiscriminatamente l’ antibiotico (che agisce su batteri). Il cortisone è un immunosoppressore e quindi nelle fasi iniziali della malattia può essere dannoso.

Dal punto di vista gestionale, oltre al fatto che abbiamo avuto notizie di cifre imbarazzanti per visite a domicilio, la poca chiarezza delle loro prescrizioni – eseguite come medici privati e quindi a carico del cittadino – ha generato un ulteriore sovraccarico di telefonate per i medici di famiglia e le USCA da parte delle persone che richiedevano la prescrizione di queste terapie a carico del servizio sanitario (tralascio il discorso della responsabilità prescrittiva).

Poi c’è il discorso che alcune delle persone che si sono affidate alle “cure domiciliari” hanno comunque avuto un decorso sfavorevole e sono comunque “ricadute” sul nostro servizio. È difficile fare un discorso logico perché non ho una casistica ed è vero che noi intercettiamo prevalentemente quelli che sono andati male, quindi il nostro campione forse non è molto rappresentativo.

Bisogna comunque riconoscere che alcune persone sono state contente perché questi medici hanno probabilmente garantito una presa in carico più reale delle persone, anche se spesso solo al telefono.

15. Qual è stata la politica relativa ai ricoveri in ospedale?
Bisogna ammettere che come USCA abbiamo subìto pressioni per non ricoverare i pazienti. Questo non vuol dire che ci sia mai stata indicazione di non ricoverare, ma il contesto – ospedale al collaso e altri fattori – sicuramente ha influenzato le pratiche. Così all’inizio abbiamo provato a tenere tanta gente a casa. Oggi si ospedalizza più spesso, anche casi un po’ borderline che prima avremmo cercato di tenere a casa.

16. Hai detto che dopo due anni il quadro covid in generale è meno grave: questo è dovuto ai vaccini, agli anticorpi, perché abbiamo imparato a gestirlo come malattia, perché le varianti sono meno gravi?
Non direi che abbiamo imparato a gestirlo. Lavoriamo nell’orizzonte in cui sappiamo che è più probabile che siano i non vaccinati a finire ospedalizzati. Non saprei, però facendo un raffronto rispetto a dicembre del 2020, oggi facciamo forse un numero minore di visite; come telefonate invece siamo sempre lì. Quello che sicuramente è cambiato è che prima c’erano molti più casi domiciliari tosti.

17. E quindi cosa ne pensi di questi vaccini?
Penso che siano un farmaco che, come gli anticorpi monoclonali, è giusto provare. Fidandosi degli studi fatti, sembra la strategia clinica migliore.

Poi come sia stata gestita la vaccinazione, anche politicamente, è il grosso problema. È l’unica cosa che è stata fatta a livello nazionale e gli è stata data un ruolo forse esagerato. Perché tantissime altre cose non sono state fatte.

Poi certo, il vaccino è business, ed è evidente che se non vaccini tutta la popolazione mondiale sarà sempre un lavoro parziale, che ricade poi nei territori. L’esempio più facile è Monfalcone, dove Fincantieri vive di migranti: economia globale, vaccinazione nazionale?

Con le giuste proporzioni, lo paragono al vaccino dell’influenza, un altro farmaco su cui si spendono miliardi, perché effettivamente riduce ospedalizzazioni e morti.

Ci siamo chiesti – come popolazione – se questi soldi non si potrebbero spendere in medicina di comunità, avendo forse risultati migliori. Ma qui c’entra Big Pharma, una programmazione sanitaria a lungo termine – che non si vede da molto tempo , una  valorizzazione della sanità pubblica e della Primary Health Care,ecc

18. Dopo due anni di pandemia, ora come ora cosa servirebbe? Più vaccinazione? Più terapie intensive? Più USCA? Più medici di famiglia?
Per come è strutturato attualmente il sistema a Trieste, il grosso della falla è il contact tracing e la presa in carico delle persone, quindi servirebbe più gente che lavori nel Dipartimento di Prevenzione. Ormai la maggior parte delle persone hanno già avuto il covid o sono vaccinate, quindi non stanno particolarmente male, ma vanno in follia per questioni burocratiche: il discorso delle quarantene, le tempistiche dei tamponi di uscita, la convivenza con familiari in isolamento, ecc. Adesso come adesso, il grosso della questione riguarda questo genere di problemi, che ricadono appunto sul Dipartimento di Prevenzione.

Inoltre, dalla mia prospettiva ovvero un servizio che in pochi giorni è stato investito da diverse centinaia di telefenote, serve trovare una strategia di comunicazione efficace, con informazioni chiare e puntuali ai cittadini.

19. Per quanto riguarda i percorsi di salute dei pazienti non covid, com’è andata la situazione?
L’impressione che ho è che, all’interno del quadro già fortemente critico degli ultimi anni, molto si stia trasferendo sulla sanità privata. Molti casi, soprattutto “non gravi, oggi come oggi, sono assolutamente rimandati alla sanità privata. Tanti nemmeno provano a prenotare nel pubblico.

Questo era un fenomeno che già esisteva e che con la pandemia si è rafforzato. Il sistema statale è allo scatafascio, negli anni non si è investito, e anzi, sono state ridotte le risorse proprio quando la richiesta aumentava.

Vedi i medici di famiglia in questa città: erano in soprannumero rispetto alla popolazione, e quindi hanno bloccato il turnover. Io sono entrata in guardia medica a Trieste e mi sono trovata colleghi che aspettavano un posto da 7 anni. Adesso c’è carenza da tutte le parti. È un sistema che non programma, che non ha una visione a 10 anni.

C’è quindi un vuoto, lasciato dalla sanità statale. E nel vuoto, entra il privato.

20. Considerando un po’ tutti i discorsi fatti finora, non vedi il rischio che la sanità diventi sempre di più un sistema di controllo (tramite tracciamento, protocolli, isolamento) e burocratico, e sempre meno un sistema orientato alla salute? Per la sensibilità che abbiamo noi, riteniamo che tracciamenti e altri strumenti possano essere in tanti casi degli approcci giusti di salute collettiva, però poi le applicazioni che vediamo nella nostra società finiscono per essere delle forme sempre più alienanti nei confronti delle persone, che si trovano in balia di queste entità burocratiche che le governano.
Quando prima ho detto che il Dipartimento di Prevenzione dovrebbe essere potenziato non intendevo dargli “più potere”, ma metterlo nelle condizioni di essere punto di riferimento, come era stato pensato inzialmente. Se ci fossero più persone impegnate in questa rete di monitoraggio e prevenzione, il servizio sarebbe molto più utile per le persone. Adesso succede il contrario: le persone vengono “catturate” nella rete, che tutto sommato offre un disservizio, e quindi è ovvio che si crea rabbia sociale.

Per come ragiono io, tante delle misure, tutto sommato, sono sensate da un punto di vista clinico: sei sintomatico, sei positivo, i tuoi contatti dovrebbero stare in isolamento. Non si sono però create misure adeguate perché tali regole, a questo punto, siano realmente sopportabili e supportabili nella società. Un esempio semplice credo siano i tamponi: troppo spesso le persone hanno dovuto farli a pagamento.

21. Infine, come vedi il futuro della pandemia?
Io spero che diventi come l’influenza. La spagnola è stata una malattia molto forte, ma poi ci abbiamo convissuto. Per parlare di questo dovrei sapere più storia della medicina, però nella mia formazione non è previsto che conosca così bene le basi del mio sapere.

Dal punto di vista sanitario, ci sarebbero molte cose che potremmo imparare da questa pandemia. Evidentemente questa non è la priorità.

Odissea di ASUGI – Prima parte di un’inchiesta collettiva

Pubblichiamo la prima parte di un’inchiesta collettiva sui temi della salute e della sanità a due anni ormai dall’irruzione sulla scena mondiale della pandemia. Un punto di vista autonomo, di parte, è sempre più necessario di fronte a quanto sta accadendo: nell’astrusa gestione governativa, nelle pressioni dei grandi concentrati di potere e di capitale, nella sarabanda mediatica, persino nella grandi proteste di piazza, la salute ai tempi della pandemia è stata infatti la grande vittima, nonostante la retorica martellante che la voleva al centro di questi due anni dannati.

Il primo contributo che pubblichiamo è una testimonianza ragionata nell’Odissea di Asugi, tra tracciamenti mancati, sviamenti, bollettini di guerra e abbandono (economico, sanitario, sociale).


L’attesa
Questo piccolo reportage nasce dall’attesa.
Alcune delle persone che lo hanno pensato sono, infatti, precipitate da poco nella quarantena o nell’autoisolamento (oppure ne sono appena uscite) e stanno sperimentando da vicino quella sensazione di sospensione che pervade chiunque sia stato costretto alla “Odissea di ASUGI” [1], come l’abbiamo presto ribattezzata.
Io sono fra quelle.
Mentre scrivo, ragiono sul fatto che la fisiologica preoccupazione per le conseguenze di aver contratto questo maledetto virus e per le condizioni di salute mie, condizioni fortunatamente ottime, e delle persone a me vicine e che potrei aver contagiato, sono tutte sensazioni che sono sparite rapidamente, sono state risolte, anzi, grazie alla presenza di una rete capace di rispondere con efficienza alle ansie che mi avevano colto nelle prime ore della malattia.
L’attesa ha sostituito tutte queste sensazioni.
Nel frattempo, isolato nel piccolo appartamento di 40 metri quadri che abito, di solito, con il mio compagno, scambio link e messaggi su Telegram con le altre persone parte della rete di cui sopra, specialmente con quelle che vivono ora la mia stessa situazione.
Discutiamo in particolare di alcuni articoli, usciti sulla stampa locale negli ultimi giorni, che ammettono candidamente l’integrale venir meno di ogni pratica di tracciamento per oltre 2.700 casi nel solo Friuli Venezia Giulia [2]. 
Il pezzo fa il paio con un’intervista alla dottoressa Ariella Breda, responsabile del Dipartimento di Prevenzione dell’ASUGI, comparsa su Il Piccolo del 10 novembre [3]. Qui, uno dei pezzi grossi della sanità nostrana, dopo una rapida stoccata ai Nemici Di Sempre (“I no vax positivi, quando li chiamiamo, spesso hanno un atteggiamento più polemico […] ma poi, tutto sommato, constatiamo che perdono un po’ della voglia di protestare“), puntava il dito contro un nuovo colpevole, granello di sabbia in quello che parrebbe il meccanismo altrimenti ben oleato messo in piedi dalle Forze del Bene contro la Pandemia: l’Omertoso.
La dottoressa Breda raccontava, infatti, che il tracciamento era in affanno a causa di chi rinunciava consapevolmente a segnalare i contatti stretti avvenuti nel periodo di incubazione del Covid.
Per l’ennesima volta, dall’inizio della pandemia, le responsabilità venivano fatte colare, senza un briciolo di vergogna, dai palazzi da dove provenivano verso il basso, come liquame.
Non una riga, di quell’articolo, si pronunciava sulle evidenti falle della sanità pubblica, manco per denunciare le banalità sotto gli occhi di tutti: che i miliardi tagliati alla salute negli ultimi anni [4], ad esempio, oltre a costare posti in terapia intensiva, hanno un prezzo elevatissimo soprattutto in termini di azzeramento della medicina territoriale, proprio quella che nell’isolamento coatto della quarantena potrebbe fare davvero la differenza, attraverso il contact tracing e la vicinanza al malato.
Confrontandomi con le esperienze vissute negli ultimi mesi da alcune compagne, trovo conferma di quanto pensavo: già dall’inizio dell’autunno in corso, il tracciamento è andato in tilt, non essendo quasi per nulla praticato dalla Azienda Sanitaria.
La stessa ASUGI, con un annuncio pubblicato sul proprio sito in data 11 novembre 2021 (il giorno successivo la diffusione dell’intervista alla dottoressa Breda), annunciava di aver assunto 12 medici con contratto di lavoro autonomo e co.co.co. (sic!) “per potenziare l’attività di prevenzione, profilassi e tracciamento” [5].
Ma la colpa non era degli Omertosi?
Omertosi o no, io sono risultato positivo a un tampone rapido il 22 novembre. A una settimana di distanza, nessuno mi ha ancora contattato per chiedermi conto dei miei contatti stretti.
Mia madre, che avevo sfortunatamente visitato proprio la sera in cui avevo iniziato a perdere la sensibilità olfattiva, si era segnalata come sintomatica, e aveva così avuto accesso a un tampone molecolare nell’arco di quattro giorni. Lo stesso aveva fatto una mia amica, con cui avevo avuto contatti ravvicinati nella finestra di probabile maggiore contagiosità.
Mia sorella e il suo ragazzo, residenti in Germania e ospiti da mia madre la sera in cui avevo cenato da lei, erano in autoisolamento da giorni. Il dottore della Guardia Medica con cui avevano cercato di confrontarsi, saputo che non risiedono in Italia, si era messo a ridere amaramente e aveva aggiunto: “tanti auguri!”.
Il mio compagno aveva ricevuto asilo da alcune amiche. Anche lui rinchiuso in una stanza, mascherine per muoversi per la casa e tamponi rapidi ogni giorno, in attesa di un qualche segno di vita da ASUGI che gli consentisse la certezza di un test molecolare e gli desse una qualche copertura per le assenze dal lavoro accumulate.
Erano questi gli omertosi di cui parlavano?
Tutte queste persone avrebbero preferito di gran lunga essere contattate dal Dipartimento di Prevenzione, per togliersi ogni dubbio e avere a disposizione gli strumenti adatti per far fronte alla situazione imprevista in cui erano incappate.
Invece, restava l’attesa.
Guarda che a me han chiamato per fissarmi un tampone e poi basta. Non ho sentito nessuno per quasi due settimane. Nessuno mi ha chiesto come stavo, nessuno mi ha contattato per segnalare nulla, non ho manco ricevuto il provvedimento di quarantena. Mi hanno fissato il tampone e poi son spariti, completamente, non mi hanno più richiamato. Anche chi si è autosegnalato come contatto a rischio non è mai mai stato ricontattato e quando, dopo oltre una settimana, ha chiamato per chiedere se poteva fare un molecolare in privato per “liberarsi”, gli hanno detto di no, che doveva aspettare loro indicazioni“.
Era questa, l’attesa.
Una sensazione che forse le generazioni più anziane capiscono solo in parte, ma che gli ultraventenni e gli ultratrentenni della mia rete conoscono alla perfezione. È la cornice culturale in cui siamo cresciute, tutto sommato: il bilico, la precarietà che si condensa nell’attesa ansiogena di una telefonata (che sia per il colloquio di lavoro o per il tampone, poco cambia).
A questa attesa ci ho già fatto il callo, il cellulare me lo porto al cesso comunque.
Ho già fatto pace con questa attesa, e poi sto bene, ho la malattia pagata, un buco di appartamento in cui, però, ora sto da solo, un esercito di persone pronte a precipitarsi da me se avessi bisogno di medicine, di spesa, di libri o di erba buona per passare il tempo.
Ma gli altri? Ma io, se uno di questi aspetti – la salute i soldi la tranquillità i vizi – dovesse venir meno, quanto potrei reggerla, questa attesa?
Come decidere di radersi i capelli
Non lo so, ma, per come stanno le cose, direi dieci giorni.
L’attesa è rotta trascorso questo lasso di tempo dall’inizio dell’isolamento, quando mi sono ormai messo nell’ottica che le giornate di malattia le trascorrerò al telefono, nella speranza di intercettare qualcuno che abbia il potere di programmarmi un tampone di controllo (e magari di emettere il certificato di quarantena, che ancora non ho ricevuto).
Mi sto armando intellettualmente allo scontro con l’apparato burocratico, quando mi suona il telefono: a sorpresa, è il dipartimento di prevenzione (dieci giorni d’attesa: non male, visti i presupposti, rifletto sarcastico).
La persona che mi ha telefonato è estremamente cortese e attenta, o forse sono pure io che – dopo diversi anni passati a sopravvivere lavorando nella jungla dei call center – non posso fare a meno di empatizzare con il mio interlocutore, conoscendo alla perfezione la sensazione di trovarsi davanti al computer, con una cuffia, molta noia e nessuno strumento adeguato per rispondere compiutamente alle domande di chi sta all’altro capo del telefono.
Mi chiede come sto (è la prima volta da dieci giorni che la sanità pubblica se ne preoccupa).
I CCCP mi inondano il cervello e sono tentato di rispondere che non studio, non lavoro, non guardo la tv, eccetera eccetera.
In realtà, a lavorare ho un pochino ricominciato, a causa del beffardo contrappasso di autosfruttamento riservatomi da un mestiere che mi permetterebbe di fare un po’ quel cazzo che voglio, quindi mi risolvo a dire “io sto bene”. In questo caso, è almeno parzialmente vero: i sintomi influenzali sono scomparsi da oltre una settimana e ho anche iniziato a recuperare gusto e olfatto.
Dopo dieci giorni di oblio, è davvero una formalità questa telefonata: lo sappiamo entrambi.
Vive da solo?
No, non vivo da solo, di solito: vivo con il mio compagno, ma abbiamo scelto di trascorrere l’isolamento separatamente… è una persona a rischio.
Mi rendo conto in quel momento di parlare con un medico, una persona che può forse fugare qualcuno dei molteplici dubbi che ci attanagliano dall’inizio della pandemia; mi ritorna pure alla mente mio moroso: “usala, la mia diagnosi, usala sempre, se ci può far ottenere qualche informazione in più, ché almeno ‘sto stigma di merda serva a qualcosa“.
Sa, è sieropositivo, aggiungo.
Silenzio, all’altro capo.
Il solito silenzio.
Cristo, questo qua – come sempre – non sa di che cazzo parlo.
Come il medico di base del mio compagno, l’unico con cui era riuscito a intrattenere un confronto, già a marzo del 2020: non uscire per nessun motivo, ripeto, non uscire per nessun motivo! Fatti portare la spesa a casa! Usa i guanti e la mascherina, se proprio devi abbandonare la base!
Ve le ricordate, le introvabili mascherine, un anno e mezzo fa?
Ve lo immaginate, il conseguente stato d’animo generato da queste parole in una persona, come tutti, già bombardata dal terrorismo mediatico, dai bollettini di guerra, dallo #stateacasa?
All’epoca, dividevamo una stanza di pochi metri quadri in una casa malandata (lo squat, per gli amici) e lì ci eravamo rintanati.
Poi erano arrivate le linee guida del Ministero della Salute: “le persone con HIV in trattamento antiretrovirale efficace, con un numero di CD4 maggiore di 500 e con viremia controllata, per i dati oggi a disposizione, se contraggono il Covid-19 non hanno un rischio di peggior decorso rispetto a una persona HIV-negativa” [6].
Da lì in poi, avevamo mangiato la foglia e avevamo iniziato ad autogestirci, a organizzare pic-nic clandestini settimanali e a dare supporto concreto alle compagne con cui avevamo iniziato a organizzare i gruppi mutualistici di aiuto.
Le linee guida del Ministero parevano messe in discussione, qualche mese dopo, dai primi studi organici sul tema [7-8], ma i dati disponibili non chiarivano nessuno dei nostri interrogativi.
Il cuore della faccenda erano quelle sei parole, buttate giù non a caso dai funzionari della sanità pubblica: “per i dati a nostra disposizione“. 
Significava che non ce n’erano, di dati utili: è un’emergenza, bellezza, la priorità non puoi essere tu.
La dottoressa che seguiva da anni la persona con cui dividevo casa e vita, era scomparsa.
La stessa professionista che, fino a un attimo prima, poteva sempre essere consultata, con cui mio moroso aveva discusso di terapie, di sesso e di droghe, che anch’io avevo conosciuto e di cui conservavo il numero di telefono e la mail, era stata inghiottita dalle corsie della terapia intensiva.
È davvero un’emergenza, quella che stiamo vivendo, una di quelle belle emergenze permanenti a cui il neoliberismo ci ha abituati: a 22 mesi di distanza dal presunto inizio della pandemia, nulla è cambiato; il “mio” compagno incrociava la “sua” dottoressa per 10 minuti al massimo, una volta ogni 3 o 4 mesi, il tempo di leggere le analisi periodiche e di scappare.
Al telefono e alle mail non risponde più.
Il silenzio, in realtà, è durato qualche attimo appena.
Torno al telefono.
Soppeso la voce della persona che conversa con me e cerco di indovinarne l’età e i possibili riferimenti culturali: probabilmente si sta immaginando aloni viola, fiumi di sostanze e affollate orge frocie.
Magari.
Riprendo il filo.
Dopo otto giorni di isolamento, nessun sintomo e una serie quotidiana di test antigenici negativi, abbiamo concluso ragionevolmente che se l’è scampata. Ma sa, preferirebbe averne la certezza e avere la copertura del periodo di assenza dal lavoro.
Dico così al mio cortese interlocutore.
Lui si barcamena, obietta che non può fare un certificato di quarantena retroattivo.
Gli faccio notare con educazione che sarà la stessa soluzione che adotteranno con me e aggiungo che così facendo disincentivano le persone dall’assumere comportamenti responsabili: e chi se lo può permettere, l’autoisolamento, se non mi coprite manco la malattia?
Mi ascolta, si arrende, mi mette in attesa: mi informo (e il mio istinto da telefonista mi dice che sta andando davvero ad informarsi, e che un po’ la situazione se l’è presa a cuore).
Resto appeso ad ascoltare il sottofondo musicale, fino a quando la comunicazione non riprende: sì, ok, si può fare, ma lo devo mettere in quarantena altri quattro-cinque giorni, oppure gli fisso un molecolare e aspettiamo i risultati, ma i tempi son più o meno quelli, più uno-due giorni per le risposte.
Mi arrendo io, ora. Non si preoccupi, si arrangerà con ferie e permessi.
Il cortese interlocutore non obietta nulla e mentalmente lo ringrazio per questo, perché sto davvero cominciando a esaurire ogni verve polemica.
Ci lasciamo con qualche domanda di routine (è vaccinato? ha idea di dove possa aver contratto la malattia?) e nessun vero e proprio tracciamento; mi preoccupo io di segnalare mia madre: la contatteremo subito, non si preoccupi (e così, in effetti, sarà).
Ne esco con un tampone di controllo prenotato fra qualche giorno e con la certezza che quanto riferitomi dai compagni è vero.
Ma ASUGI te ga za ciamà per el secondo tampon, che me son perso?” “Sì, grazie a F. dio can. La baba la ga ciamada per dirghe che el suo tampon iera negativo e ela ghe ga pianto el morto che no i me gaveva ancora ciamado…“.
Oh teniamoci in contatto e ricordiamo alle autorità sanitarie la nostra rispettiva esistenza: passaparola e rompere i coglioni, se ne esce solo così“.
Andiamo bene.
Note:
[1]Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina
[4]In FVG, il simbolo di questo processo è ovviamente la riforma sanitaria targata Serracchiani, bocciata perfino dalla Corte dei Conti per l’impatto avuto sul servizio pubblico e sul taglio della spesa sanitaria pro capite (https://www.regione.fvg.it/rafvg/export/sites/default/RAFVG/GEN/amministrazione-trasparente/FOGLIA15/FOGLIA_2/allegati/2018/Deliberazione_Corte_dei_Conti_9_2018.pdf pp. 281 e ss.).
In perfetta continuità, si sono poi inserite le politiche di chi allora criticava la riforma dall’opposizione: sotto la giunta Fedriga, si è infatti continuato a registrare il progressivo taglio di posti letto ospedalieri e i connessi scandali legati al presunto potenziamento delle terapie intensive dell’era pandemica (https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2021/11/25/news/in-fvg-e-scontro-sui-posti-letto-di-terapia-intensiva-assistenza-adeguata-1.40960721); recentissimamente, poi, il piano di riorganizzazione del servizio di ASUGI mette in luce la volontà di dimezzare i servizi territoriali attivi nella città di Trieste (https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2021/12/03/news/il-piano-asugi-per-trieste-dimezza-i-distretti-sanitari-e-i-centri-di-salute-mentale-1.40991393).

Ritorno alla normalità – Lo sblocco degli sfratti

«Spalmare l’emergenza sociale»: è questa l’espressione che meglio definisce il modo in cui il governo Draghi ha iniziato a rilasciare, già a partire da ieri, la bomba rappresentata dallo sblocco degli sfratti.
Da qui al primo di ottobre, partiranno – infatti – gli sfratti richiesti prima del 28 febbraio 2020, mentre successivamente a quest’ultima data avranno corso le esecuzioni relativi agli sfratti richiesti fra il 28 febbraio e il 30 settembre 2020; infine, dal primo gennaio 2022, si effettueranno gli accessi relativi ai provvedimenti emessi fra il primo ottobre 2020 e il 30 giugno 2021.

Questa esplosione controllata servirà per «calmare il mercato immobiliare», cioè per permettere ai grandi proprietari di continuare a speculare sulla nuda vita — cosa c’è di più basilare della casa? — di migliaia di persone.

Una decisione politica particolarmente violenta, dunque, che – sommata all’altra bomba sociale sganciata dal governo, quella dello sblocco dei licenziamenti – andrà ad impoverire ancora di più le classi popolari, già fortemente colpite dalla pandemia e dalla sua gestione governativa.

Questo dramma — voluto e pianificato con cura — pare tutt’altro che una soluzione sorpredente e originale: esso è la cruda sintesi di cosa significhi il «ritorno alla normalità», l’odiosa normalità nella quale ogni aspetto della vita delle persone è merce da comprare e vendere. E questo è particolarmente vero per quel che riguarda la casa, uno degli ambiti in cui sono più evidenti le disuguaglianze che caratterizzano la nostra società.

Stando ai numeri forniti dall’Agenzia delle Entrate, quasi il 60% del valore immobiliare, in Italia, è nelle mani del 20% delle famiglie più abbienti. Questo semplice dato dimostra che, mentre la maggior parte delle persone deve dedicare — nel migliore dei casi — una grossa parte delle proprie entrate per pagarsi un tetto (spesso misero), l’élites economiche utilizzano questo bene di prima necessità per arricchirsi, in un gioco macabro nel quale lo Stato — fra le altre cose — mette a disposizione la propria forza per cacciare migliaia di persone da casa loro, in modo da permettere che il flusso del business immobiliare continui senza sosta.

La situazione nella nostra città non fa eccezione. Secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili, nel 2019 nella provincia di Trieste ci sono stati 795 provvedimenti di sfratto, dei quali 482 eseguiti. Più di uno sfratto al giorno, quindi, la stragrande maggioranza dei quali dovuti alla morosità incolpevole degli inquilini, cioè all’impossibilità di pagare l’affitto per difficoltà economiche sopravvenute (per esempio, la perdita del posto di lavoro). Sempre secondo i dati ISTAT, addirittura il 98% degli sfratti per morosità in Italia derivano da situazioni come queste.

Noi neghiamo il «diritto» ad arricchirsi speculando sulle proprietà immobiliari; finché tutte le persone non avranno una casa — dignitosa, capace di soddisfare le necessità di ognuna senza risucchiare la maggior parte del proprio reddito — questo tipo di operazioni economiche devono essere combattute senza esitazione.

Perciò, sosteniamo e sosterremo sempre chi resiste agli sfratti, chi lotta contro gli abusi dei palazzinari, chi occupa case vuote per abitarle.

Perché vogliamo una vita libera dal giogo dei mercati, perché la nostra dignità non è una merce di scambio.

Abbattere il coprifuoco si può!

Sabato sera a Trieste più di un centinaio di persone hanno scelto di violare il coprifuoco. Un corteo selvaggio è partito alle 22 per muoversi nella strade della città: è stata la prima volta che qualcun* ha deciso di organizzarsi per rompere il dispositivo di controllo e di guerra del coprifuoco, motivato da ragioni tutt’altro che sanitarie.

Nonostante la presenza di figure più o meno note che raccattano voti con facili discorsi sulla pandemia, la maggior parte delle persone scese in piazza si è trovata per opporsi all’assurdità della misure autoritarie del governo.

Un corteo vivo ed acceso, che al grido LIBERTÀ ha rotto quella che sembrava la più inviolabile delle misure. Un grido di libertà intonato da giovani, precari e proletari che hanno deciso di dire basta allo stato di polizia che avanza.

La digos cacciata a male parole, la libertà del gesto semplice di liberazione, la musica, le discussioni sulle multe e i controlli ci restituiscono il segnale di una ribellione che avanza. Non contro l’epidemia in sé, ma contro lo stato di polizia che la gestisce.

Il coprifuoco è l’ennesima misura meramente repressiva che viene calata dall’alto su di noi. Perciò scendiamo in piazza e, con i nostri corpi, abbattiamolo.

Pasqua 2021, esempio paradigmatico della gestione pandemica

A oltre un anno dall’inizio dell’emergenza Coronavirus, constatiamo che molte cose sono cambiate. Alcune, invece, sono rimaste esattamente le stesse: la più vistosa è che il dogma della produzione e del mercato (ovvero, in parole povere: i profitti delle grande aziende sono la priorità assoluta) è ancora la bussola che guida le principali politiche del governo italiano. Nonostante sia sempre più evidente che sia stato proprio questo dogma ad aver, non creato, ma fatto esplodere la pandemia, in un primo momento, poi ad averla resa una strage a causa di un sistema sanitario ridotto all’osso e infine una crisi sociale senza alcun precedente, con il sistema sociale del tutto incapace di rispondere universalmente alla domanda di reddito (che sia di chi lavora in cassa integrazione, di chi ha un piccolo commercio ed è impossibilitato a lavorare, di chi è in disoccupazione, di chi è precario, sempre più espulsi ai margini del mercato del lavoro).

Tempo fa cercammo di fare una cronaca della strage che era in corso, con ospedali e case di riposo al collasso mentre Confindustria strombazzava per le aperture totali  e il mantenimento della produzione ad ogni costo. Ci vollero gli scioperi spontanei degli/lle operai/e a rendere evidente l’esigenza che i luoghi di lavoro fossero resi sicuri e quindi ripensati per tutelare la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Gli affari, come sempre, dovevano andare avanti, e tutto riprese come prima, con il sacrificio deciso da governo e Confindustria di chi era costretto a lavorare e di precisi settori sociali.

Oggi ci troviamo nella medesima situazione, anche se in una forma più spudorata: lockdown totale del cosiddetto tempo libero, se si esce da casa è per andare a lavorare. Quello che però ci sembra cambiato è l’atteggiamento generale. Se inizialmente le restrizioni sortivano un effetto immediato e tangibile, svuotando le strade e i luoghi di ritrovo, un anno dopo quelle stesse restrizioni appaiano sempre più vuote. Vediamo così, in piena zona rossa, che tante persone decidono di forzare i limiti delle interpretazioni di legge. Noi crediamo che uno dei principali motivi di questo cambiamento nei comportamenti è la percezione crescente, più o meno consapevole, che insieme agli scopi sanitari (diminuire i contagi e le morti, principalmente) le misure anti-covid sono guidate anche da un tentativo di puro controllo sociale. Non si spiegherebbero altrimenti ridicole misure come quelle imposte per lo scorso weekend di Pasqua: poliziotti dispiegati per assicurarsi che le persone si spostassero soltanto per andare a rinchiudersi con amici e parenti in spazi chiusi, e per reprimere qualsiasi iniziativa all’aria aperta — infinitamente più sicure da un punto di vista sanitario. Così, nel brulichio di micro-pratiche di resistenza allo stato pandemico, rimangono a girare a vuoto gli sbirri, costretti ad affacendarsi per assegnare arbitrarimente le loro multe.

Se all’inizio il virus sembrava insomma un’entità astratta e assoluta, ora l’esperienza ci insegna quanto la pandemia sia in realtà un fatto naturale e sociale al tempo stesso. Sorridiamo quindi complici alla persona che si siede su una panchina a prendere un po’ di sole, al gruppetto di ragazzi che si trova al parco, all’anziano che si beve un bicer. Con tante sfumature, si tratta perlopiù di situazioni a basso rischio sanitario:  stanno all’aria aperta, come è giusto che sia, dove gli stessi spazi permettono il distanziamento necessario per evitare i contagi.

A questo diffuso evento di insubordinazione all’assurdità del potere, dovremmo forse aggiungere alcuni elementi. La critica di questi dispositivi – il coprifuoco, la chiusura forzata in casa, le assurde possibilità di andare all’estero, ma non ad esempio in campagna – ha bisogno di rendersi una forza che sia in grado di scalfire l’impianto governativo. Dovremmo parlare dei vaccini (di come vengono prodotti; del loro significato per proteggere la popolazione più fragile, cosa tutt’altro che al primo posto nel piano militare che hanno organizzato), di come si distribuisce la ricchezza in questa situazione, delle spese militari che crescono vertiginosamente, della sanità e della cura di fronte ad una pandemia. Per ora ci consola l’intesa che troviamo sempre più spesso in strada, che potrà divenire solidarietà preziosa quando i nodi di questa assurda situazione verranno al pettine.

TRAMA_rete mutualistica autogestita

La pandemia globale che stiamo vivendo ha di fatto accelerato processi sociali già in atto: una minoranza di persone diviene sempre più ricca mentre tutt’attorno crescono miseria, povertà e disperazione.

Invece della gestione sensata di un’emergenza sanitaria abbiamo visto mettere in atto piuttosto una militarizzazione delle strade e dei territori.

Mentre le nostre libertà venivano limitate e la repressione nelle strade aumentava, metà delle grandi imprese del FVG restavano aperte senza le necessarie tutele per lavoratori e lavoratrici, il contagio da Covid 19 si diffondeva senza che il sistema sanitario venisse rafforzato, ed i finanziamenti all’industria bellica e alle forze dell’ordine aumentavano. Chi si trovava senza casa poteva ambire al massimo ad una multa, e chi perdeva il lavoro doveva razionare i soldi risparmiati.

Nulla è cambiato con la cosiddetta seconda ondata, la fase attuale, dove anzi si fanno più evidenti gli effetti della crisi sociale in atto. Aumentano il numero di persone che a Trieste rischiano uno sfratto (più di 200 casi all’anno), lo stacco delle utenze o hanno appena i soldi per arrivare a fine mese. Non si tratta solo della mala-gestione sanitaria derivata dall’assenza di organizzazione e finanziamenti, ma anche del peggioramento generalizzato della salute mentale di tutte/i, dell’iper-tecnologizzazione forzata delle nostre attività, della privazione della socialità – soprattutto nelle persone giovani – e della mancanza, per bambini/e e adolescenti, di un modo di apprendere sano ed adeguato.

Se la propaganda di governo continua ad additarci indistintamente come responsabili, sotto forma di “furbetti”, spetta allora a noi, tutte/i assieme, analizzare autonomamente la situazione che ci circonda. Vedremmo quindi, per esempio, che il 7 novembre, Fincantieri, colosso industriale anche di navi da guerra, si vantava sulla stampa che il 3% dei loro lavoratori era risultato positivo al Covid19, non dicendo però che l’incidenza nella popolazione era dell’1.5% e che quindi raddoppiava nei loro cantieri, mai chiusi.

Insomma, la crisi sanitaria ci mostra una gestione dell’emergenza votata a tutelare profitti e aumentare di fatto il controllo sulla popolazione, mentre lascia poche briciole per sostenere il reddito di chi è in difficoltà, per la sanità pubblica al collasso e i suoi lavoratori e lavoratrici, per i trasporti dove siamo costretti/e ad ammassarci per far funzionare questa economia di guerra. Ovvero una macchina che produce profitti per pochi, morte e miseria per gli altri/e.

Di fronte a questo sistema, che crediamo vada affrontato alle radici, e di fronte alla crisi in arrivo, pensiamo sia importante riconoscerci, partire dall’organizzazione della solidarietà tra di noi in reti autogestite, convinte/i che sia la via per garantirci a tutte/i tutela e supporto. 

La solidarietà rappresenta per noi la base per la costruzione di un mondo altro, basato sul supporto reciproco e sulla cura tra le persone.

In questo cammino non vogliamo sottostare ad equilibrismi politici e di potere, ma vogliamo invece procedere passo dopo passo con obbiettivi chiari e semplici, mossi dal senso di giustizia e dall’autogestione. Per questo pensiamo per esempio che: nessuna/o deve dormire all’addiaccio con il freddo e rischiare la morte, che chi non può permettersi un affitto non deve essere sfrattata/o, che chi non può permettersi la spesa non deve avere fame. Non vediamo la nostra attività come la fornitura di servizi para-statali, ma come un vivere ed un agire politico che tende a costruire concretamente relazioni diverse.

Significa praticare il mutuo soccorso nell’ottica che anche chi ne beneficerà potrà contribuire in prima persona a prendersi cura della comunità in altre forme.

Se cerchi supporto in città, o sei affine a ciò che abbiamo scritto qui, puoi trovarci:

???? GERMINAL_via del Bosco n.52°_San Giacomo
-Lunedì dalle 18.00 alle 20.00
°Raccolta alimentare e medicinali

-Mercoledì dalle 18.00 alle 20.00
°Distribuzione alimentare
°Sportello casa/utenze: per organizzarci assieme contro sfratti e stacchi delle utenze (per info e segnalazioni : 3294318856 )

Per raccolta e distribuzione contattare: 3518150663 o gruppoanarchicogerminal@hotmail.com

???? ZENO_vicolo delle Rose _Roiano
°Raccolta e distribuzione alimentare, medicinali, vestiti e coperte
Contattaci: arcizeno@gmail.com

???? CASA delle CULTURE_via Orlandini 38 (sopra al ponte)_Ponziana
-Sabato dalle 17.00 alle 19.00
°Raccolta abiti e coperte, raccolta alimentare e medicinali
Contattaci: cdctrieste@gmail.com

Niente stipendio? Nessun affitto!

A causa del COVID-19 hai perso il lavoro? Non riesci più a pagare l’affitto?         

Molte persone si trovano letteralmente sul lastrico, a causa della crisi sociale e economica attuale, ma possiamo reagire:

  • Ricontratta l’affitto. Puoi metterti d’accordo con il proprietario di casa per ridurre l’affitto in questo periodo di emergenza, in tutta Italia molte persone lo stanno già facendo!

A questo link puoi scaricare una lettera da mandare al proprietario per proporre la riduzione: https://sullabreccia.noblogs.org/modello-di-lettera-per-contrattazione-di-affitto/

  • Il propietario si rifiuta? Sciopera! Non devi aver paura di perdere la casa perché tutte le procedure di sfratto sono bloccate fino al 1 settembre e i tribunali sono intasati! Non buttare il poco che hai nell’affitto!
  • Contattaci e condividi la tua esperienza. L’unione fa la forza: siamo un gruppo di giovani, e abbiamo deciso di fare e diffondere lo sciopero dell’affitto e molti di noi hanno ottenuto delle riduzioni! Insieme possiamo trovare la migliore strategia per parlare e contrattare con il proprietario di casa, e la tua esperienza può dare forza ad altre persone!

Chiamaci al (+39)3294318856 o scrivici su questa pagina:  https://www.facebook.com/collettivotilt/; possiamo darti una consulenza, raccontarti la nostra esperienza e trovare il modo di organizzarci insieme!

Modello di lettera per contrattazione di affitto

Raccomandata AR / E-mail …………….

Oggetto: locazione Via …………………………. N. … 

Gentile sig. ……………………….

In relazione al contratto di locazione da me stipulato per l’appartamento di Sua proprietà sito in …………., Via ……………………….., N. ….  Le faccio presente che a causa della nota diffusione del  Covid-19, e delle conseguenze sull’economia, non ho la possibilità di versare il canone come pattuito in contratto.

Infatti in questo mese non ho percepito alcuna somma poiché ………………………………………. e nei prossimi mesi, per la medesima ragione, non prevedo miglioramenti.

Sono a conoscenza della possibilità che il Parlamento intervenga con misure integrative o fiscali e pertanto, in attesa di novità legislative, Le propongo di ricontrattare il canone con una delle seguenti ipotesi:

  • Diminuzione del canone fino alla scadenza del contratto del ……… % [la percentuale di quanto voglio ridurre l’affitto]
  • Diminuzione del canone per ….. mesi del …….. % [come sopra]
  • Sospensione per i prossimi ….. mesi del versamento del canone, impegnandomi a riprendere il pagamento del canone, non appena finisce l’emergenza.

Resta inteso che continuerò a versare quanto dovuto per oneri condominiali e utenze.

In mancanza di una sua risposta, ovvero di rigetto di tutte le proposte sopra indicate, Le comunico che dal prossimo mese …..

  • verserò il canone in misura ridotta ed esattamente la somma di € ……………
  • non verserò il canone di affitto

Ogni risposta potrà essere inviata a mezzo E-mail all’indirizzo: …………………………………….

Saluti

Li,……………

 

Sportello contro lo sfruttamento

Il Primo Maggio, da più di un secolo, significa scendere in piazza. C’è chi lo fa per tradizione, chi per rabbia, chi per ascoltare il concerto, chi per porre le rivendicazioni per cui lotta ogni giorno: la data del Primo Maggio, in ogni caso, ha sempre significato soprattutto stare insieme in strada.

Quest’anno, chi governa l’attuale crisi epidemica in Italia non avrebbe voluto che questo succedesse.

Mentre è iniziata ufficialmente la “fase 2”, che ha costretto milioni di lavoratrici e lavoratori a rinchiudersi in altrettanti angusti spazi chiusi, continua infatti a perdurare il divieto di manifestazioni e scioperi in tutto il paese, divieto che – evidentemente – nulla ha a che fare con la benché minima giustificazione sanitaria.

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Produci, confinati, crepa: note a margine del Primo Maggio 2020

Nella giornata di ieri la “Rete triestina per il 1° maggio 2020” ha lanciato una chiamata per invitare tutte e tutti a scendere in strada con un cartello o un altro messaggio visibile. «Vogliamo riprenderci lo spazio fisico, riconoscerci seppur distanziati e rompere l’isolamento del virtuale», recitava il comunicato. Ma l’obiettivo della giornata non era semplicemente appagare la voglia di ritornare in strada e ritrovare forme non virtuali di socialità: prima di ogni cosa si intendeva festeggiare il Primo Maggio, giornata dei lavoratori e delle lavoratrici, ricordandone i significati profondi e la sua traduzione nel tempo presente.

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