Al fianco del popolo colombiano, contro il massacro dello Stato

Lo scorso 6 maggio, la comunità colombiana di Trieste è scesa in piazza per denunciare l’indifferenza della comunità internazionale e dell’Unione Europea riguardo la gravissima situazione che si sta vivendo in Colombia in questi giorni.

L’emergenza del COVID-19 ha rappresentato una parentesi nell’onda di mobilitazioni che scosse la Colombia alla fine del 2019. Un anno dopo, con la disoccupazione al 20%, il tasso di povertà in aumento, la passività e spesso connivenza del governo davanti ai gruppi paramilitari e i narcos e l’avanzamento del potere delle multinazionali nei territori, sono tornate le proteste contro il governo di estrema destra di Iván Duque Márquez. La scintilla che ha fatto esplodere la rabbia sociale è stata una riforma fiscale (avvallata dal FMI) che pretende di fare uscire la Colombia dalla crisi economica che la colpisce, aumentando le tasse alla classe media e lavoratrice del Paese.

Così, il 28 aprile, decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, studenti, contadini, indigeni e afrocolombiani sono scesi in piazza per un nuovo «paro nacional» (sciopero generale), contro la politica economica del governo, la sua gestione della pandemia e la perenne violenza da parte della polizia. A differenza delle manifestazioni passate, in questa occasione le proteste sono andate ben oltre le grandi città come Bogotá, Cali o Medellín, diffondendosi in quasi tutto il Paese.
Nonostante Duque sia stato costretto a ritirare la riforma, i motivi non mancavano e le proteste non si sono fermate. La risposta del governo è stata — purtroppo — coerente con la storia di uno Stato troppo ben allenato alla repressione. Soprattutto nelle grandi città, la polizia ed i militari hanno utilizzato la violenza armata contro i manifestanti, che protestavano in modo prevalentemente pacifico. Negli ultimi giorni diverse organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno informato di cifre raccapriccianti riguardo l’operato delle forze dell’ordine e dell’esercito: più di 50 persone assassinate, decine di casi confermati di violenza sessuale e centinaia di desaparecidos. Questi dati rappresentano soltanto la parte visibile di una escalation di violenza da parte dello Stato che continua oggi.
Noi siamo e saremo al fianco delle comunità colombiane che in questi giorni denunciano il massacro del loro popolo da parte di uno Stato repressore e la passività dell’Unione Europea davanti a una situazione del genere. 
#Soscolombia #nosestanmatando

Produci, confinati, crepa: 1 maggio 2021

Una lunga e importante giornata di mobilitazione ha avuto luogo ieri, in varie parti della nostra città.

Un primo maggio di lotta e di festa, iniziato già alle 9 con le iniziative diffuse che hanno attraversato il centro: il riuscito flash mob organizzato in Piazza Unità da Germinal, Cobas e Usi; soprattutto, la rabbiosa e determinata passeggiata che, coinvolgendo diverse decine di persone, ha rotto le limitazioni governative al ritmo di slogan come “le morti in Lombardia/gridano vendetta/Confindustria che tu sia maledetta” e “distanza sociale/dal pubblico ufficiale”.

Dopo una sosta davanti all’ospedale Maggiore, in cui abbiamo ricordato la strage di Stato dell’ultimo anno, un saluto alle detenute e ai detenuti del Coroneo, e un breve intervento in Piazza Goldoni, luogo delle mobilitazioni dei riders di queste settimane, il gruppo, ormai ingrossatosi, è rientrato in Campo San Giacomo, dove dalle 11 ha avuto luogo il presidio unitario organizzato da diverse realtà antagoniste e sindacali di base.

Si sono quindi succeduti vari interventi che hanno indicato le responsabilità politiche nella strage sanitaria e sociale che si è verificata in questo anno di pandemia, con una gestione improntata alla repressione di Stato e alla tutela degli interessi di Confindustria, dopo anni di tagli alla sanità, di precarizzazione del lavoro, di limitazione degli spazi di libertà. Morti o reclusi, al lavoro, in carcere, in casa: è questa la condizione in cui vogliono costringere proletari e proletarie, e che con la pandemia non hanno fatto altro che accelerare.

Per tutto il pomeriggio c’è stato quindi un bel momento di ripresa collettiva della socialità, che ha voluto rompere con il modello che ci hanno imposto dall’inizio della pandemia: all’aperto, ritrovandoci assieme in sicurezza, riconoscendoci dopo mesi chiusi in casa (per chi se lo può permettere) e in fabbrica o in ufficio (per chi ha un lavoro). Insomma, riprendendo la nostra normalità: rapportarci liberamente fra di noi, prendendoci cura a vicenda senza imposizioni dall’alto.