Di repressione, durante ma soprattutto al termine dell’attuale emergenza sanitaria, sarà necessario e imprescindibile discutere.
La gestione politica dell’epidemia di coronavirus da parte dei governi nazionali ha infatti già fatto esplodere la violenza poliziesca e porterà inevitabilmente con sé tangibili conseguenze giudiziarie.
Le lotte sociali che si stanno condensando nei luoghi di massima densità del conflitto (carceri, CPR, fabbriche rimaste aperte grazie alla pressione di quegli assassini di Confindustria – strage che abbiamo analizzato in profondità nel nostro precedente testo [1] -, ora perfino supermercati) rappresentano il piano di osservazione privilegiato di questo fenomeno. Qui, lo Stato è intervenuto con l’aggressività tipica di chi è consapevole che la situazione non è sotto controllo, menando e ammazzando dove possibile [2]; se ne sarà capace, lo stesso Stato non tarderà a celebrare nei tribunali lo spettacolino dei processi penali, per i protagonisti di queste lotte.
Gli strascichi giudiziari e la repressione già in atto sono tuttavia percepibili anche a un livello più generalizzato: quello delle migliaia di denunce appioppate ex art. 650 c.p. a chi viola lo stato di emergenza imposto dal Governo italiano [3]; quello delle intimidazioni sbirresche in cui molte e molti di noi incappano quotidianamente (soprattutto se giovani e “mal vestiti”).
Ma di repressione giudiziaria ci siamo dovute occupare anche prima dell’epidemia in atto, a causa di una girandola di procedimenti penali e amministrativi che, negli ultimi mesi, hanno colpito numerose compagne attive a Trieste.
Dalle multe per “blocco del traffico”, pervenute a seguito delle contestazioni all’allora ministro Salvini, alle numerose denunce per occupazione e imbrattamento piovute negli ultimi mesi, ai fermi in Questura – e alle relative conseguenze penali – successive allo sgombero-lampo dello spazio sociale Breccia e alle iniziative antifasciste del 3 novembre 2018, fino ad arrivare ai fogli di via di recente recapitati ad alcuni militanti attivi nella lotta contro il CPR di Gradisca.
A questa elencazione sommaria, vanno poi ad aggiungersi una moltitudine di processi e processini ulteriori, spesso indirizzati a destinatari specifici o a episodi di lotta risalenti ad alcuni anni fa (ad esempio, nell’ambito delle battaglie contro il carcere, i CIE, gli sfratti).
Pur a fronte di un livello di conflittualità decisamente basso, ci siamo dunque trovate a fare i conti con un intenso livello di repressione giudiziaria e poliziesca.
Il riflesso di questa contrapposizione lo si ha, evidentemente, nelle violazioni contestate dalle autorità pubbliche. All’aggressione e alla resistenza a pubblico ufficiale, reati classicamente utilizzati per la repressione delle lotte sociali, si sostituiscono così ipotesi di illecito ulteriori (anche in ragione del fatto che – a Trieste – sono anni che non vola sasso); illeciti, in un modo o nell’altro, connessi con un concetto: quello delle “zone rosse”, cioè dei divieti di accesso o disponibilità di contesti spaziali delimitati dal potere pubblico. Ma su questa osservazione, si tornerà fra un attimo.
Intanto, risulta essenziale mettere in evidenza il fatto che la tendenza appena descritta si inserisce in un contesto coerente sul piano nazionale. In tutta Italia, gli ultimi anni sono stati infatti caratterizzati da una duplice tendenza: da un lato, dall’inasprimento delle sanzioni penali e amministrative previste per tutte le fattispecie astrattamente efficaci nell’ambito delle lotte sociali (fenomeno promosso soprattutto attraverso l’approvazione dei cc.dd. “decreti sicurezza”, a firma Minniti-Orlando e Salvini [4]); dall’altro, ad un generalizzato incremento delle tecniche di controllo della popolazione, sull’onda del capitalismo della sorveglianza che si estende in tutto il mondo.
Colpisce, in particolare nel nostro caso, la macroscopica asimmetria fra lo stato dell’arte dei movimenti in Italia e la repressione in atto, come a dimostrare un’atavica paura da parte dell’ordine costituito che la miccia dei conflitti possa in ogni momento riesplodere. La valanga di sgomberi che ha interessato anche luoghi storici dell’antagonismo italiano (si pensi all’Asilo o ad XM24, solo per citarne due), le manovre sbirresco-giudiziario-mediatiche di criminalizzazione del movimento NO tav o di quello contro i centri di detenzione amministrativa, i numerosissimi arresti e le accuse di terrorismo e associazione sovversiva con le operazioni Scintilla e Renata, le misure di sicurezza minacciate (e, nel caso di Eddi, decretate) ai partigiani di ritorno dal Rojava, le multe, i sequestri, gli arresti e le intimidazioni comminati ai gruppi operanti nel Mediterraneo e lungo la Balkan Route. Una tempesta repressiva pare abbattersi sulle sacche di resistenza ancora esistenti in Italia, coerentemente a quanto sta avvenendo nelle zone dell’Occidente in cui le lotte godono di uno stato di salute decisamente migliore (la Francia della Nuit Debout e dei Gilets Jaunes, da questo punto di vista, rappresenta l’esempio più significativo [5]).
In Italia, la repressione sperimenta, inoltre, un grado di efficacia mai raggiunto prima, visibile soprattutto attraverso l’osservazione di due fenomeni.
Il primo di essi consiste nel sovrautilizzo delle sanzioni amministrative per reprimere le attività considerate meno rischiose per il potere. Così facendo, le istituzioni pubbliche rinunciano alla pervasività della repressione penale – spesso minacciata dal potere in ottica soprattutto deterrente – rendendo tuttavia molto più complicato sfuggire alle conseguenze giudiziarie della nostra attività politica [6].
Il secondo fenomeno è invece costituito dal massiccio impiego dello strumento tecnologico per il controllo della popolazione. Come in un moderno panopticon, le città sono oggi costantemente e ovunque sorvegliate da un esercito di telecamere, mentre le sempre più sofisticate intercettazioni telefoniche e ambientali vengono dispiegate dai tutori dell’ordine, le profilazioni attuate attraverso i big data divengono strumento consueto di controllo e l’analisi dei dati biometrici comincia a farsi strada anche come mezzo di prova nei tribunali.
Da questo punto di vista, le emergenze (vere o dichiarate) degli ultimi anni, in primis quella motivata dal “terrorismo”, hanno consentito un salto di qualità nello sviluppo di tali strumenti. L’Italia del coronavirus diviene così il laboratorio ideale in cui sperimentare l’utilizzo dei droni o di altre sofisticate tecnologie di tracciamento [7].
La normalizzazione della repressione entro la società, il venir meno del carattere “spettacolare” della pena e l’asservimento della scienza tecnica al controllo della popolazione non costituiscono un fenomeno per nulla nuovo: già nel capolavoro di Foucault, “Sorvegliare e punire”, è possibile trovare una descrizione dettagliata di questo processo.
L’elemento di novità che pare farsi strada negli ultimi anni è costituito dalle modalità con cui il medesimo processo si dispiega: la repressione non ha oggi più le sembianze di un riflesso difensivo del potere, messo in atto nei confronti di chi lo minaccia, né di una mera tecnica di disciplinamento della popolazione; più di questo, essa sembra piuttosto assurgere a strumento di governo preventivo che permea ogni aspetto delle nostre vite [8].
Per affermare efficacemente tale nuovo ordine, risulta tuttavia essenziale affermare politicamente un concetto passe-partout che lo legittimi: ecco dunque farsi largo la sovrana Sicurezza, etichetta ideale per ogni intervento repressivo degli ultimi anni [9].
L’affermazione delle “zone rosse” – dispositivo largamente sperimentato nei confronti dei movimenti sociali, a partire dagli anni Novanta – permette di concretizzare e localizzare il concetto jolly di sicurezza. Così facendo, si viene generalizzando uno stato d’emergenza permanente, che fonda le basi del proprio intervento sulla sorveglianza preventiva e la normalizzazione di ogni elemento di incertezza, concepito come minaccia: un meccanismo che intreccia prevenzione e repressione in una macchina paranoica.
Una “zona rossa” è, infatti, nient’altro che uno spazio di inacessibilità, definito a partire dall’esigenza di contenere tutto ciò che risulta indesiderato al potere (e, dunque, insicuro), regolamentando e controllando minuziosamente quanto circondato al suo interno. Che quello spazio sia un muro della città, un giardino abbandonato agli interessi speculativi che cercano di farsi strada in essa, la Reggia di Venaria, la città di Biarritz, oppure l’Europa intera, poco importa: il meccanismo è sempre lo stesso.
Una “zona rossa” è, dunque, un dispositivo retorico, affermato politicamente a partire dal macro-principio della Sicurezza; alla dichiarazione di una “zona rossa” da parte del potere, segue poi l’adozione di una serie di precetti (il divieto di ingresso o di uscita, la militarizzazione dei confini, l’obbligo di sacrificare le proprie libertà individuali ai fini del monitoraggio), adottati attraverso strumenti normativi (regolamenti di polizia comunale, prescrizioni delle autorità, leggi nazionali e internazionali), generanti – a loro volta – la repressione in senso classico, a suon di manette e manganelli, oltre che un incremento di sorveglianza a fini preventivi.
Per queste ragioni, quando la grave e reale epidemia che sta attraversando il mondo intero è affrontata dai governi nazionali attraverso l’istituzione di “zone rosse”, dovremmo balzare sulla sedia. Le misure adottate nelle ultime settimane, in particolare dall’esecutivo italiano, riflettono, infatti, una retorica perfettamente aderente a quella che giustifica e regola i meccanismi repressivi e contenitivi promossi nell’ultimo ventennio. Questa osservazione pare ancora rafforzata da quanto fatto trapelare dai media mainstream in merito al contenuto della cosiddetta “fase 2”, quella del paventato allentamento delle restrizioni in vigore nell’ultimo mese, in realtà consistente nella legittimazione finale e totale della prevalenza del diritto al profitto e allo sfruttamento su quello alla salute [10].
Allo stesso modo, dovremmo riflettere sul fatto che la grande maggioranza dei procedimenti penali attualmente aperti nei confronti di compagni e compagne attive a Trieste consistano nella contestazione di violazioni riconducibili all’obbligo di rispettare l’intangibilità di una dimensione spaziale, arbitrariamente definita dal potere. Il dispositivo della “zona rossa” – precipitazione visibile della retorica securitaria – costituisce, infatti, la base fondante le fattispecie di reato che ci sono contestate.
Se le osservazioni svolte fin qua sono corrette, occorre dunque predisporre delle risposte politiche adeguate ai temi posti, cosa che – in effetti – in molte parti d’Italia e d’Europa già si sta tentando di fare.
Ora più che mai, sembra perciò urgente imporre un discorso efficace contro la dilagante retorica securitaria che ci circonda. Soltanto attraverso la sperimentazione di pratiche capaci di rompere le regolamentazioni imposteci, agendo concretamente al di fuori di esse, saremo in grado di mettere in crisi i dispositivi di controllo e repressione che regolano la nostra quotidianità, rendendo perciò effettivo un simile discorso.
Anche gesti semplici – come la costituzione di una cassa anti-repressione cittadina, avvenuta alcuni mesi fa sulla spinta delle nuove denunce pervenuteci – possono costituire la base per un simile processo, quando accompagnati da un costante “fare” collettivo e dalla costruzione di legami di concreta solidarietà, che permettano di condividere e alleggerire le responsabilità giudiziarie individuali, facendoci sentire meno sole.