E così alla fine Confindustria ha tolto la maschera.
“Se questa è una guerra, questi sono dei disertori. Anche in guerra c’è chi diserta perché ha paura, ma viene preso, messo al muro e fucilato. Qua non dobbiamo fucilare nessuno, ma dobbiamo far pesare su questi la loro diserzione”. Sono le parole, tra i risolini degli astanti, del presidente di Confindustria Alto Adriatico Michelangelo Agrusti, intervenuto a margine della conferenza stampa organizzata dalla Regione FVG sulla situazione sanitaria dell’area, che vede un aumento esponenziale dei contagi, in particolare nella provincia triestina.
Di guerra si era parlato proprio in merito agli interventi di Confindustria nell’esercitare pressioni sul governo (o – riformulando – nel dettare la linea alle autorità) nel corso delle prime ondate della pandemia: ne era uscita un’inchiesta in due puntate (prima e seconda) in cui si mostravano le posizioni dell’associazione degli industriali totalmente indifferenti alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici e invece unicamente orientate alla strenua difesa delle linee produttive e dei suoi profitti.
Quella retorica da economia di guerra rientra ora nelle parole di un dirigente particolarmente scottato dalla forza espressa dalle mobilitazioni triestine contro il green pass. A contesto lievemente traslato, ritorna la stessa arroganza nella pretesa di imporre le proprie misure di controllo della forza lavoro, al fine di garantire la piena operatività della produzione. Del resto, è stata Confindustria la vera promotrice della misura del green pass: la sua “proposta” di un lasciapassare per l’ingresso nei luoghi di lavoro a fine luglio diventò legge nel giro di poche settimane, una velocità di trasformazione dei desideri dei padroni che non può stupire chiunque conosca la vita politica dell’attuale Presidente del Consiglio. Inutile dire che non si trattava di salute pubblica (come dichiarato senza scomporsi del portavoce di Confindustria), quanto invece della necessità di garantirsi piena operatività scaricando sui lavoratori e sulle lavoratrici la responsabilità di occuparsi delle condizioni di sicurezza sanitaria in ambito lavorativo.
A colpire ancor di più è tuttavia la saldatura di un blocco sociale nell’imporre il ritorno alla tanta agognata normalità, per lunghi mesi messa in discussione da una virulenta mobilitazione di piazza, almeno nella città di Trieste.
La conferenza stampa dell’altro giorno puzzava già di manovra politica, almeno da quando – nella canea mediatica – si era alzata la voce dei benpensanti sulle mobilitazioni contro il green pass di Trieste. All’ordine del giorno c’era ormai quella che il prefetto uscente di Trieste aveva chiamato “una compressione temporanea del diritto di manifestare”. Non a caso era stata lanciata una petizione online (di grande successo, ripetono entusiastici i media) che si appellava alla responsabilità e alla scienza contro l’oscurantismo dei novax e dei no green pass (diventati ormai la stessa cosa per la stampa mainstream), che avevano reso Trieste il fronte più avanzato delle mobilitazioni antigovernative. Tra i primi firmatari, neanche a dirlo, non c’era il popolo, ma la classe dirigente e l’intellighenzia borghese della città: Benussi (CRTrieste) e Gialuz (Barcolana) trai promotori, e a seguire D’Agostino (Autorità Portuale), Di Lenarda (Rettore dell’Università di Trieste), insieme a Michelangelo Agrusti (Confindustria Alto Adriatico), Antonio Paoletti (Camera di Commercio), Riccardo Illy, Bruno Vesnaver (FIPE), e uno stuolo di imprenditori, dirigenti e altri “illustri” personaggi triestini. Una chiara reazione di quella che da un po’ di tempo a questa parte chiamano la “classe dirigente” e che non è nient’altro chela borghesia cittadina.
L’architettura di questa operazione è notevole: una campagna stampa denigratoria verso i manifestanti e allarmistica rispetto alla diffusione di nuovi focolai in provincia di Trieste; un appello dell’intellighenzia per il ritorno alla normalità e alla ragionevolezza; l’intervento delle autorità locali che, riprendendo lo schema, finiscono per limitare il diritto di manifestazione e con un atto di responsabilità cercano di soffocare nella paura la mobilitazione popolare. Nel giro di qualche giorno si prova a consumare la restaurazione, con la drammatica approvazione di una parte della cittadinanza che non ha fatto in tempo ad accorgersi della macchinazione.
Anche perché, una volta di più, solo gli ingenui potevano pensare che si trattasse di un atto umanitario di chi crede realmente nella salute pubblica. Era invece, e lo si vedeva sempre più chiaramente dall’affanno, l’esigenza che la “diserzione” rientrasse: si ritornasse a fatturare con la piena disponibilità della forza lavoro sospesa, assente o in sciopero; e si ripristinasse la piena circolazione delle merci nel centro storico, cioè il commercio a trazione turistica.
Nel frattempo, a danno ormai compiuto, si alza ora anche qualche voce critica. Dal Manifesto, ad esempio, fanno notare che l’alta incidenza dei contagi ha ragioni diversificate che non possono essere unicamente ascrivibili a qualche manifestazione (seppure oceanica). Lo stesso Coordinamento No Green Pass di Trieste fa notare le modalità denigratorie e antipopolari dell’uso strumentale della salute in senso politico.
In effetti che sia Gialuz, tra gli altri, a metterci la faccia dovrebbe quantomeno permettere una rapida associazione di idee: ma come, la Barcolana non ha sortito effetti sull’epidemia?
Evidentemente no, perché i problemi, più che i contagi, sono altri. E le facce di merda che si scandalizzano ora indossando la giacchetta di lino farebbero bene a farsi due conti: se c’è una guerra con i suoi disertori, a piede libero ci saranno bene anche dei criminali di guerra.
È evidente che qualcuno, nelle stanze dei bottoni, si è letteralmente cagato addosso. I loro piani di ripresa e rilancio della città hanno trovato un grosso ostacolo: la determinazione di migliaia di cittadini, sempre più a trazione popolare, ora accomunati dall’opposizione al Green Pass, che in questa protesta covano ormai i semi di una critica radicale allo stato di cose presente. La misura, sostenuta un po’ da tutte le autorità locali e nazionali, e voluta in primis da Confindustria per lavarsi le mani dalla sicurezza sui luoghi di lavoro, potrebbe diventare la goccia che fa traboccare il vaso delle tensioni sociali accumulate in questi due anni di gestione pandemica.
“La ricreazione è finita e anche la pazienza dei cittadini”: come sempre, le parole di Confindustria colgono nel segno. Solo che non si rendono conto che sono rivolte a loro.